“Il vero punto di svolta è la legge sulla rappresentanza (che al governo fa paura)”.

Si avvicina il momento (il 10 ottobre) in cui il Cnel presenterà al governo la sua proposta sul salario minimo, come da incarico agostano della premier Meloni al parlamentino di Villa Lubin. Poi si vedrà come il governo intenderà agire. Ma mentre a livello politico il dibattito infuria (sia pure nelle ultime settimane un po’ offuscato dalla questione sbarchi e migranti), il sindacato sembra stare alla finestra: le prese di posizione ci sono, naturalmente, e sostanzialmente tutte positive, ma l’idea del salario definito per legge non sembra scaldare più di tanto i rappresentanti dei lavoratori. Il Diario ne ha chiesto le ragioni a Marco Falcinelli, segretario generale della Filctem, la categoria dell’industria che riunisce chimici e tessili.

Falcinelli, è una sensazione sbagliata, o non vi siete fatti particolarmente coinvolgere nel dibattito sul salario minimo?

Faccio una premessa: in passato la posizione della nostra categoria era contraria all’idea del salario minimo, perché nel nostro settore non c’è mai stato né il problema di definire una soglia ‘’di decenza’’ per i salari, tutti più che dignitosi, sia perché anche le stesse condizioni del mercato del lavoro, nel settore, non creavano i problemi di precarietà che sono emersi altrove, come, in particolare nei servizi, nel turismo, nella ristorazione, eccetera. Ma a parte la nostra specificità, noi abbiamo sempre sostenuto che i temi sui quali insistere per risolvere le storture sono due: dare valore legale ai contratti e definire una legge sulla rappresentanza. Siamo convinti che questi due elementi siano quelli realmente risolutivi. Occorre dare un supporto legislativo alla contrattazione perché, diversamente, ragionare solo su una soglia oraria aiuta coloro che stanno sotto quella soglia, ma non risolve il problema del lavoro povero nel suo complesso: non risolve il problema dei contratti pirata, del valore legale dei contratti, della rappresentanza. Partendo dal solo salario minimo, in pratica, si prende il problema per la coda invece che per la testa.

Cosa intende?

Io penso che il problema più difficile, per il governo, sia proprio quello di mettere mano alla rappresentanza. Troppi non la vogliono, da Confindustria ad altri sindacati. Se il governo intervenisse su questo terreno scontenterebbe tanti. E allora si sposta tutta la discussione sul salario come tema unico, facendo sì che di tutto il resto non si parli più. Ecco, io temo che il governo alla fine imbocchi questa scorciatoia, lasciando morire il resto della discussione. Noi siamo favorevoli al salario minimo, ma riteniamo che la definizione della soglia oraria debba essere accompagnata dalla legge sulla rappresentanza e dalla definizione della validità erga omnes dei contratti nazionali.

Ma il governo, comunque, non sembra orientato a realizzarlo davvero il salario minimo. O forse pensa di sì?

Se il governo alla fine decidesse di varare il salario minimo, magari solo per settori non coperti dalla contrattazione, non sarebbe una risposta utile a risolvere i problemi, tantomeno i contratti pirata, ma, nel contempo, noi saremmo in difficoltà: non potremmo ovviamente contestarlo, né tantomeno dire ‘non va bene, vogliamo la legge sulla rappresentanza’. Insomma, ci vedo una furbizia: qualcosa che il governo potrebbe mettere in campo per evitare di inimicarsi coloro che la legge sulla rappresentanza non la vogliono.

Non vede altri rischi? Per esempio, come alcuni sostengono, che le imprese escano dal contratto nazionale, più costoso, per applicare solo il salario minimo restando comodamente nella legge?

No, questa è una grande sciocchezza. Immaginare che le imprese improvvisamente smettano di applicare i contratti nazionali per rifugiarsi nel salario minimo significa immaginare che il sindacato smetta di esistere: nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, la nostra voce, e quella dei delegati, si farebbe sentire. Le conseguenze ci sarebbero. Poi, certo, ci sarà qualche furbetto che proverà ad avvalersi di questo trucco, ma probabilmente sarebbero gli stessi che oggi applicano i contratti pirata.

Non crede che, al contrario, un eventuale provvedimento legislativo sul salario minimo potrebbe essere il primo passo per aprire poi una trattativa a tutto campo che comprenda anche gli altri capitoli?

Se così fosse, magari. Ma, come ho detto, ritengo più probabile che una volta esaurita la spinta del salario minimo di tutto il resto non si parli più. Accantonando per l’ennesima volta i temi davvero cruciali. Ricordo che il primo testo sull’applicazione dell’art. 39 risale a quindici anni fa, e non si è mai fatto un passo avanti.

Resta che c’è un problema di bassi salari che va risolto in qualche modo, o no?

Si, ma innanzi tutto occorrerebbe fare chiarezza su cosa è il salario oggi in Italia, capire le voci estremamente variegate da cui è composto, studiare le differenze tra i settori, anche all’interno delle stesse categorie, dove a ogni contratto cambia la retribuzione, perché è composta di voci diverse per ogni settore. Per esempio: noi nell’ultimo contratto dei chimici abbiamo inserito anche la quota della previdenza integrativa nel “valore punto”, cioè quello in base al quale definiamo gli aumenti salariali; in altri contratti questa voce non c’è. Quindi, quando diciamo ‘’salario’’, di che salario parliamo? Come vede è un mondo variegatissimo: non solo quello dei contratti, che sono ormai quasi un migliaio, ma anche quello delle retribuzioni e delle voci di cui si compongono. Per questo riteniamo necessaria una discussione su cos’è oggi il salario in Italia: non può essere quello indicato nei minimi tabellari o nel trattamento economico complessivo, ma va allargato anche agli elementi di welfare.

Lei ha detto, e lo dicono molti dirigenti della Cgil, che la contrattazione oggi è sotto attacco. Cosa intende, esattamente? Perché quello che io vedo è una stagione contrattuale che è stata molto positiva, con tantissimi contratti rinnovati senza un’ora di sciopero e con forti aumenti salariali.

Questo è vero prevalentemente per l’industria, ma in altri settori ci sono contratti scaduti da anni. Il punto è che oggi abbiamo un serio problema sulla contrattazione. Abbiamo un modello contrattuale inadeguato, il Patto della fabbrica non risponde più alle esigenze: risale al 2018, e da allora il mondo è cambiato almeno tre o quattro volte. Inoltre, in questi anni quel modello ha svolto un ruolo di forte moderazione salariale che ci ha molto penalizzato. Dunque va cambiato.

In che modo?

Innanzi tutto l’Ipca va modificata: è un parametro che così com’è previsto dal Patto, cioè depurato dalla componente energetica, non può assolutamente rispondere ai tempi: i costi dell’energia saranno sempre più un tema dominante dei prossimi anni, non si può pensare di escluderli. Ma sono molte le cose da rivedere. Per esempio la durata dei contratti: il triennio oggi non risponde più alle necessità, non sta al passo con la velocità dei mutamenti dell’economia, dunque ci penalizza. Si dovrebbe tornare alla formulazione precedente, che definiva una vigenza di quattro anni per la parte normativa e di due anni per la parte economica dei contratti. In questo modo si riuscirebbe a intervenire tempestivamente rispetto a cicli dell’economia, dell’inflazione, eccetera.

E queste modifiche come e chi dovrebbe apportarle?

Io credo che si dovrebbe aprire un confronto con la Confindustria, per arrivare a un nuovo accordo interconfederale. Del resto, con chi si dovrebbe parlare di salari, contratti, orario di lavoro, se non con le controparti? Occorrerebbe un accordo quadro, con tre o quattro punti di riferimento, lasciando poi ai vari settori la possibilità di seguire le proprie specificità.

E il governo? Dovrebbe o potrebbe avere un ruolo?

Se ci fosse un governo più attento, forse potrebbero essere giusti i tempi anche per una nuova intesa sulla politica dei redditi nel suo complesso. Ma quello che invece vediamo è un governo che respinge l’idea stessa che su alcuni temi di carattere generale, come fisco, pensioni, sanità, possa esserci un vero confronto con le parti sociali. E infatti non c’è alcun confronto, ci sono convocazioni a Palazzo Chigi o presso i ministeri che lasciano il tempo che trovano: nessuna discussione reale. Anche in questo senso noi diciamo che è in corso un attacco alla contrattazione: di più, io credo ci sia un attacco all’idea stessa che esista un soggetto, come il sindacato, cui spetta negoziare diritti collettivi. Proprio per questo la Cgil ha iniziato l’attuale percorso di mobilitazione, con le migliaia di assemblee nei luoghi di lavoro, che ci porterà alla manifestazione nazionale del 7 ottobre insieme a centinaia di associazioni. Poi valuteremo i contenuti della legge di bilancio che il governo presenterà, e se non ci saranno risposte alle nostre proposte, contenute nelle piattaforme unitarie predisposte con Cisl e Uil, sarà inevitabile inasprire la mobilitazione fino alla proclamazione dello sciopero generale.

di Nunzia Penelope. Il diario del lavoro, 22 settembre 2023

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