È arrivato alla vigilia del ponte dei Santi, e forse per questo ha avuto poca visibilità mediatica. Ma l’accordo firmato il 30 ottobre tra l’Eni e i sindacati dei Chimici di tutte e tre le confederazioni Cgil Cisl e Uil non è una intesa da poco anzi: bonus da 3000 euro nella busta paga di novembre, bonus benzina o ricarica elettrica da 200 euro, riconferma del bonus bollette luce e gas da 70 euro annui cadauno, aumento dei buoni pasto da 5,5 a 8 euro anche per chi lavora da remoto. In totale, un valore di 85 milioni di euro, distribuito da Eni a ventimila dipendenti. Ma non solo il valore economico conta: c’è anche da considerare il senso “politico” di una intesa che dimostra cosa si può fare attraverso le relazioni industriali quando funzionano. Ne parliamo con Marco Falcinelli, segretario generale della Filctem Cgil.

Falcinelli, come nasce questo accordo?

Nasce innanzi tutto dal fatto che con Eni abbiamo, appunto, un modello di relazioni industriali che funziona. L’obiettivo era innanzitutto quello di dare risposte nel delicato momento di congiuntura economica del paese. E considerando che il Gruppo, trimestrale dopo trimestrale, continua a ottenere risultati positivi, anche grazie all’apporto fondamentale dei suoi dipendenti, era corretto chiedere che ci fosse un riconoscimento anche verso i lavoratori, definendo una serie di interventi economici di natura sia straordinaria che continuativa. Abbiamo avanzato le nostre richieste, e l’azienda ne ha condiviso l’opportunità. Al di là della contingenza, anche pensando alle grandi sfide future nel settore energetico, che richiederanno un forte impegno comune e partecipativo. Infatti lavoriamo a definire entro il 2024 un accordo sulle politiche di welfare più espansivo rispetto all’attuale.

Il termine “partecipativo’’ che torna nel testo dell’accordo, e il senso stesso dell’intesa – una azienda che condivide i successi con la sua gente – si possono intendere come un passo verso un modello di partecipazione?

No. L’accordo nasce da un rapporto di relazioni partecipate, ma definirla partecipazione mi sembra strumentale. C’è stata una rivendicazione salariale, a cui ha fatto seguito un accordo sindacale, e questo non ha nulla a che vedere con la partecipazione.

Però la Cisl, commentando l’accordo con Eni, ha dato proprio questa interpretazione: l’azienda che fa utili e li redistribuisce ai lavoratori come esempio concreto della partecipazione.

La ritengo una definizione non corretta, una forzatura. Un conto è rivendicare un principio di democrazia economica, altro è un modello di partecipazione modello Cisl, che ci vede da sempre contrari.  Noi siamo, caso mai, per il modello tedesco, duale: un consiglio di sorveglianza, con i rappresentanti dei lavoratori, e un Cda, con ruoli ben distinti. La Cisl invece pensa alla rappresentanza dei lavoratori nel Cda, il che significherebbe condividere il rischio di impresa. Siamo d’accordo che anche in Italia ci sia un riconoscimento del ruolo dei sindacati nel “controllo” aziendale: ma il rischio di impresa deve restare all’impresa.

Sono molte le cose che vi dividono dalla Cisl: anche sulla risposta alla manovra del governo e sullo sciopero siete su sponde diverse.

La Cisl sembra voler escludere il conflitto dal suo orizzonte: sia per quanto riguarda i rapporti col governo che con le controparti. Sedere nei Cda implica rinunciare al conflitto, così come non voler scioperare contro la manovra. Noi non siamo a favore del conflitto a prescindere, anzi: crediamo che sia necessario negoziare sempre, e restare al tavolo fino all’ultimo. Ma se poi non si trova un accordo è necessario accettare che vi sia lo scontro, e dunque lo sciopero deve essere un’arma sempre a disposizione del sindacato.

Di Nunzia Penelope (Il diario del lavoro, 3 novembre 2023)

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