Il diario del lavoro ha intervistato il segretario generale dalla Filctem-Cigl Marco Falcinelli in merito alla transizione energetica e al ruolo del sindacato nel governare questi processi di cambiamento ambientale. Falcinelli denuncia come il sindacato non sia ascoltato dal governo e spiega l’importanza del coinvolgimento delle parti sociali in questa fase di ripartenza del paese. Per il segretario, bisogna ricalibrare l’intero tessuto industriale e sociale per riuscire a gestire non solo i cambiamenti delle produzioni di energia ma anche per garantire e tutelare il lavoro, anche e soprattutto attraverso la formazione continua.

Falcinelli, quali sono gli obbiettivi da raggiungere rispetto alla transizione energetica?

Son due le grandi rivoluzioni che dobbiamo affrontare e provare a governare: da un lato l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione e dall’altra la questione della sostenibilità ambientale, in particolare rispetto agli obbiettivi europei del 2030 e 2050. Nel 2030 ci deve essere una riduzione del 55% delle emissioni climalteranti e l’azzeramento nel 2050. Questi sono i due grandi temi che all’interno del PNRR assorbono circa il 37-40% delle risorse complessive.

Quando si parla di emissioni climalteranti cosa si intende?

Tutti gli elementi legati alla Co2, quindi all’emissione carbonica. Per la produzione di energia nel mondo, Italia compresa, vengono utilizzate le fonti fossili, quindi il carbone, il petrolio e il gas. L’Europa ha chiesto nel Green New Deal che nei piani dei vari paesi europei vengano dedicate al digitale e ambiente almeno il 37% delle risorse stanziate dall’Europa. L’Italia si è adoperata per raggiungere questi obbiettivi e infatti all’interno del PNRR ha dato delle indicazioni su questi temi, ad esempio sul consumo o la produzione di energia. Qui devo fare una premessa: le questioni del PNRR sono state solo illustrate alle parti sociali, ma non c’è stata una discussione collettiva per costruire insieme i contenuti di questo piano.

Inoltre come parti sociali avevate in passato presentato al governo le vostre proposte?

Si, con le nostre controparti di categoria avevamo scritto delle proposte condivise, ma il governo non ci ha ascoltato. Quando ci hanno convocato, ci siamo trovati di fronte un pacchetto già confezionato. Per questo abbiamo sottolineato che il metodo utilizzato non va bene. Ci è stata data solo una informativa, ma i margini di intervento rispetto ai contenuti del piano non sono stati oggetto di discussione con il sindacato.

L’altro governo invece vi aveva ascoltato e coinvolto?

No, sostanzialmente c’è stato lo stesso tipo di atteggiamento. Con il governo Conte come parti sociali avevamo acquisito una certa centralità che ci è stata riconosciuta solo quando si è trattato di gestire la fase più grave della pandemia: la riscrittura dei protocolli di sicurezza per riaprire le fabbriche, i provvedimenti sul blocco dei licenziamenti. Qui il sindacato ha avuto un momento politico, che ci ha visto tornare protagonisti rispetto alla teoria della disintermediazione dei governi precedenti. Speravamo che poi il coinvolgimento continuasse nella fase di riprogettazione del Paese. Invece questo è mancato.

Ed è mancato questo coinvolgimento anche con il governo Draghi.

Si, avevamo sperato che ci fosse con questo nuovo governo un cambio di passo, dato che avevano convocato le organizzazioni sindacali nella fase di consultazione per la formazione del governo e in quel momento ci era stato promesso che ci sarebbe stato un coinvolgimento attivo, da protagonisti, delle parti sociali, nella riscrittura dei progetti che avrebbero fatto ripartire il paese. Tutto ciò non è avvenuto e questo è un nostro primo elemento forte di critica del governo. Adesso stiamo insistendo per avere un tavolo che ci permetta di discutere insieme i temi contenuti del piano.

Questi ultimi governi insomma vi hanno chiamato solo per toglierli le castagne dal fuoco.

Esatto, e non ci chiamano quando si tratta di ragionare insieme su come fare ripartire il paese, su come riprogettarlo, su come pensare insieme a un nuovo modello di sviluppo. Quindi in questo momento il governo sta adottando più un metodo, usando termini tecnici, di partenariato sociale, piuttosto che un metodo legato alla storia e al ruolo sindacale del nostro Paese, che è quello della contrattazione, di negoziazione con il governo, non di meri ascoltatori passivi. Al momento dal ministero della transizione ecologica non è arrivata nessuna convocazione. Quindi ad oggi manca sia un tavolo generale confederale che un confronto con le singole categorie interessate.

Quali sono le vostre proposte per affrontare il cambiamento dei processi di produzione energetica?

Sicuramente bisogna affrontare la parte industriale di questi processi. L’Italia è un paese che è costituito per il 90% di piccole e medio imprese e siccome siamo un paese trasformatore, tra i primi Paesi manifatturieri d’Europa, e siamo anche fortemente energivori. Quindi aldilà dei grandi player internazionali come Eni, Enel e Snav, che hanno grandi capitali da investire e stanno comunque investendo sulla transizione energetica per produrre energia da fonti rinnovabili o produrre idrogeno, è necessario che l’intero tessuto industriale del nostro paese sia aiutata con forti investimenti per poter cambiare radicalmente tutti i modelli produttivi delle aziende legate all’energia. Se non si sviluppa una filiera industriale che consenta al Paese di essere produttore di elettrolizzatori per l’idrogeno, così come le pale eoliche e pannelli solari che vengono prodotti in Germania e in Corea, rischiamo di non cogliere gli obbiettivi indicati dalla Commissione Europea e dal PNRR e perdere una occasione di sviluppo e di lavoro.

In merito al lavoro, nelle vostre proposte avete messo al centro questo tema.

Si, i temi che abbiamo posto non riguardano solo gli aspetti industriali legati alla sostenibilità ambientale e transizione energetica. Vogliamo che il piano di ripartenza del paese metta al centro il tema del lavoro, cioè la creazione di lavoro stabile, che favorisca i giovani e le donne, dobbiamo pensare che questa transizione ha bisogno di essere governata anche dal punto di vista sociale, non solo industriale. C’è tanto lavoro da fare e tanti lavoratori che devono essere messi in grado di poter lavorare bene.

In che senso?

Le centinaia di migliaia di lavoratori che saranno coinvolti nel processo di cambiamento legato alla transizione energetica, che attualmente lavorano nelle aziende del settore energia, avranno sicuramente necessità di aggiornare le loro competenze, di fare formazione continua, per essere in grado di ragionare compiutamente del cambiamento. Se i lavoratori non vengono resi protagonisti dei processi di cambiamento, non solo non avremo la famosa resilienza di cui tanto si parla, ma al contrario avremo una vera e propria resistenza al cambiamento.

di Emanuele Ghiani.
Il Diario del Lavoro, 14 maggio 2021

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